La democrazia nella pratica. Problemi.
Tutti i tipi di democrazia esistenti (partecipativa, rappresentativa, diretta e le sue varianti) hanno come base la creazione di uno Stato che regoli, coordini e controlli la vita della società su un territorio specifico. In breve si potrebbe dire che si costituisce lo Stato per difendersi dall’attacco della natura e degli altri esseri umani, sia quelli al di là, sia quelli entro i nostri confini, e per farlo ci si serve del potere coattivo, vale a dire, si impone la messa in pratica di principi e regole mediante la minaccia o l’uso della forza.
Lo Stato, legittimato dal potere che i cittadini gli hanno concesso, opera anche in quanto mediatore e giudice in caso di disaccordo e in quanto organismo regolatore nel cosiddetti “fallimenti del mercato”. Ed è precisamente agendo e intervenendo in campo economico, autoproclamandosi difensore dell’interesse generale, che inevitabilmente sbaglia ancora e ancora. Ne spiegheró le ragioni nel corso di questo saggio.
Karl Marx sosteneva che “Lo Stato non è il regno della ragione ma della forza; non è il regno del bene comune ma dell’interesse parziale; non ha come scopo il benessere di tutti, bensì di coloro che detengono il potere; non rappresenta l’uscita dallo stato di natura, ne è anzi la continuazione sotto altra forma. Al contrario, l’uscita dallo stato di natura coinciderà con la fine dello Stato.”
Trovo sorprendente il fatto che Mark abbia potuto osservare con così tanta chiarezza il problema e sbagliare in maniera altrettanto assurda proponendo la sua soluzione di “più Stato”, con tutte le devastanti conseguenze che ciò ha comportato per le varie società che hanno applicato le sue idee. Non utilizzo l’aggettivo “assurdo” gratuitamente; va infatti contro qualsiasi logica umana criticare qualcosa e offrire, come soluzione, una quantità maggiore di tale cosa. Se, per esempio, consideriamo il consumo di alcool come qualcosa di dannoso, non avrà senso proporre come soluzione che se ne consumi di più, independentemente dal fatto che lo si chiami cognac (borghesia) o vodka (proletariato).
Verso la metà del secolo scorso, inizialmente a seguito dei lavori dell’economista scozzese Duncan Black e poi, degli studi dello statunitense James M. Buchanan, studi che gli valsero il Premio Nobel per l’economia, il metodo di studio economico cominciò ad applicarsi alle scienze politiche, fenomeno conosciuto come “Public choice theory” (“Teoria della scelta pubblica”). Questa scuola studia i processi politici nelle società sviluppate che applicano un sistema politico democratico e analizza anche il comportamento dei diversi agenti implicati: i votanti, i politici e i burocrati o funzionari; lo fa servendosi di strumenti propri della scienza economica.
Partendo dal presupposto che nel mercato (nel quale gli agenti seguono i propri interessi) si verificano dei fallimenti, l’intenzione era quella di stabilire se, per i cittadini, tale difetto fosse più o meno dannoso di quelli che teoricamente avrebbero potuto essere i benefici derivanti dall’intervento dello Stato (il quale, si supponeva, avrebbe perseguito il bene comune). Detto altrimenti si voleva chiarire se la medicina fosse migliore o peggiore della presunta malattia.
Ecco i cinque problemi:
- L’ignoranza razionale dei votanti.
Nasce come consesguenza del fatto che i votanti constatano che il loro voto risulta essere irrilevante, in quanto la probabilità che il loro voto sia quello decisivo nelle elezioni è praticamente nulla. I teorici non criticano il fatto che si vada o no a votare, sostengono semplicemente che la gente non voti in maniera razionale, con cognizione di causa, in quanto la maggioranza dei cittadini ritiene che possedere il beneficio del voto con cognizione di causa sia così insignificante che crede non valga la pensa farsi carico dell’immenso costo e sforzo che comporta lo studio di tutti i programmi politici dei vari partiti (le loro implicazioni, il profilo dei vari candidati, lo studio delle varie teorie economiche, ecc…). In definitiva farsi carico di costi elevati non risulta essere compensato dalla possibilità di ottenere un beneficio a posteriori, come, per esempio, influenzare in maniera decisiva il risultato finale delle elezioni.
Gli studiosi della teoria della scelta pubblica non riescono a stabilire il motivo per cui la gente vada a votare, forse lo facciamo perché consideriamo che sia una nostra “responsabilità democratica” o forse per mero intrattenimento. E visto che le elezioni non si svolgono con molta frequenza procura emozione e soddisfazione prender parte a un processo democratico ed esprimere in questa maniera le nostre preferenze. In ogni caso si vota principalmente in base a considreazioni tribali, passionali o viscerali ma, generalmente, senza attingere a motivazioni razionali.
– Opinione personale:
Lungi dall’essere uno studio di carattere scientifico, ho la sensazione che questo problema, quello dell’irrazionalità dei votanti, invece di decrescere man mano che l’età del votante aumenta – e che lui/lei vada quindi acquisendo conoscenza ed esperienza sempre maggiori e un livello di coscienza più alto – si aggravi; credo infatti che molti giovani abbiano uno spirito critico che vada perdendosi con l’età. Quando si è giovani si ha normalmente la mente più aperta all’apprendimento ed è più facile cambiare opinione.
Al contrario, quando diventiamo adulti, forse come conseguenza della “sindrome del saggio”, smettiamo di ascoltare quelli che non la pensano come noi e monopolizziamo la verità. Come disse Bertrand Russell: “Molti dei problemi sono dovuti al fatto che il mondo è pieno di ignoranti assolutamente sicuri di tutto, e di persone intelligenti che sono invece piene di dubbi”.
- L’esistenza di gruppi di interesse o lobby.
Si tratta di gruppi di persone fisiche e/o giuridiche relativamente ristretti, con interessi molto concreti come, per esempio, ottenere dallo Stato aiuti, sovvenzioni, esenzioni fiscali o qualunque altro tipo di privilegio, traendone grande beneficio e rappresentando un basso costo per i cittadini nel loro complesso; il costo, infatti, viene diluito tra tutta la popolazione “benefits are concentrated while costs are diffused” (Buchnan). La nostra cara Lola Flores aveva già notato molto chiaramente quanto i benefici fossero concentrati e i costi diluiti: “Se ogni spagnolo mi desse una peseta potrei uscire dai debiti”. Che peccato che alla fine “La Faraona” (donna faraone N.d.T.), nome con cui l’artista era più comunemente chiamata, non potesse contare su una buona lobby…
Per mascherare la frode i governi sostengono che la concessione dell’aiuto o della sovvenzione a un determinato gruppo avvenga per il bene comune o per cause nobili e giustificate. Tali privilegi fatti dallo Stato a questi gruppi di interesse normalmente si traducono nel versamento di contributi finanziari a sostegno di campagne elettorali, nel pagamento di commissioni, in voti, nell’occupazione di cariche dirigenziali (porta girevole), ecc…
L’aspetto più grave di queste politiche è che la democrazia, in realtà, è già stata sequestrata sin dall’inizio; addirittura prima che un partito arrivi al potere, infatti, esso si è già indebitato con molti di quei gruppi di interesse che lo hanno portato al potere; di conseguenza gli manca la libertà per esaudire la volontà e i bisogni dei cittadini.
- La rappresentazione democratica non vincolante.
Questo, in pratica, significa consegnare ai governanti assegni in bianco, il che fa sì che a essi manchino gli incentivi per rispettare le promesse fatte.
Vediamo, infatti, che in pieno periodo elettorale i politici fanno qualunque tipo di promessa, e identificano gruppetti di intresse e potenziali votanti ideali per “comprare” o ottenere voti; tuttavia, una volta vinte le elezioni, visto che tale rappresentanza non è vincolante, non hanno nessun obbligo di attenersi a quanto promesso, e talvolta fanno addirittura il contrario. Facendo un piccolo esercizio di memoria storica possiamo osservare chiaramente quanto poco siano stati rispettati i programmi politici e che buona parte delle promesse elettorali non siano state mantenute.
E ancora… per fa sì che l’inganno non sia tanto palese e per evitare di passare per bugiardi, il che potrebbe screditarli e limitare le possibilità di essere rieletti, sostengono che “le circostanze sono cambiate in maniera non prevedibile”, che “anche se non ci piace, non c’è un’alternativa”; ricorrono addirittura alla cultura della paura arrivando praticamente a dire che se non facessero ciò che fanno la razza umana scomparirebbe, giustificando così il fatto di non poter portare a termine le politiche che si erano presi l’impegno di realizzare.
- La miopia dei governi.
I politici che detengono il potere optano quasi esclusivamente per quei mezzi che apportano un beneficio immediato e che hanno un costo lontano nel tempo, rifiutano quindi di mettere in pratica politiche che abbiano costi immediati e benefici lontani nel tempo. Questo, da un lato, è dovuto al fatto che ai governanti manchi l’interesse o l’incentivo per migliorare il paese nel lungo termine, in quanto l’orizzonte temporale è molto corto, in concreto giunge fino alle prossime elezioni; dall’altro lato è dovuto al fatto che i cittadini tendano a volere risultati immediati.
Ci saranno persone che penseranno che il lungo temine non conti, tra queste l’economista già scomparso John Maynard Keynes con la sua frase “nel lungo termine saremo già tutti morti”. Rimane tuttavia il fatto che i nostri figli e i nostri nipoti esisteranno ancora dopo di noi e riceveranno i frutti (e i debiti!) prodotti dalle nostre azioni.
- I burocrati e i funzionari.
Nonostante le critiche che spesso la maggioranza dei cittadini rivolge a questi agenti, gli studiosi della teoria della scelta pubblica non criticano le persone in particolare, bensì il sistema, e arrivano alla conclusione che ai burocrati e ai funzionari manchino gli incentivi per agire in maniera efficiente. Il problema principale è che la pubblica amministrazione non è immersa in un ambiente in cui vi sia libertà di concorrenza, nel quale sia possibile effettuare il calcolo economico con prezzi di mercato e nel quale il processo decisionale sia guidato dalle considerazioni su costi e benefici.
Visto che non sono i loro soldi ad essere in gioco e che non esiste la pressione della concorrenza, il comportamento burocratico ha tra gli effetti inevitabili: la tendenza incontrollata alla crescita dei costi e dei disavanzi, il continuo aumento delle strutture funzionali, l’esecuzione di opere faraoniche in periodi di prosperitá, la presenza di “ditocrazia” (esercizio arbitrario del potere N.d.T.) e il moltiplicarsi di enti di tipo burocratico. Bisogna anche tenere in considerazione che se un dicastero o ministero non utilizza tutto il budget questo si “perde”, tornado all’amministrazione centrale ed è probabile che l’anno successivo tale budget verrà ridotto proporzionalmente. Questo, assieme al fatto che un budget più grande significa potere più grande, incentiva i burocrati ad utilizzarlo in qualunque modo. Il risultato di tutto ciò è che al giorno d’oggi, nella maggior parte dei paesi della U.E., lo Stato praticamente si “mangia” già la metà di quello che la sua economia produce (PIL).
Da parte sua al funzionario, a differenza di quel che succde con i lavoratori del settore privato, mancano gli incentivi per innovare, per introdurre migliorie o per assumersi dei rischi in quanto non può ottenere nessuna contropartita o ricompensa, né mettere a rischio il suo posto di lavoro. E ripeto, questa generalizzazione non rappresenta nessuna critica personale ai nostri funzionari; sono persone che stanno agendo in maniera completamente razionale. Non si tratta, all’inizio, di mancanza di impegno; il problema è nel sistema degli incentivi che, alla lunga, riduce la produttività.
A questi cinque aspetti vorrei aggiungere un problema che si produce in conseguenza dell’intervento dello Stato in economia.
– La limitazione della democrazia che avviene alterando la libera scelta dei cittadini o dei consumatori.
Lo Stato, intervenendo in maniera coattiva nel mercato, modifica e altera artificialmente i gusti e le preferenze dei consumatori generando distorsioni e ingiustizie in quanto il mercato libero, senza il suo intervento, avrebbe preso altre decisioni. Se lo Stato decide di sovvenzionare determinate imprese del settore agricolo, per esempio attraverso la concessione di aiuti economici o per mezzo di politiche protezionistiche (tariffe doganali, quote…), erigendosi a difensore dell’economia nazionale, sostenendo che altrimenti tali imprese non potrebbero rimanere nel mercato sta, da una parte, sottraendo risorse dei contribuenti o dei settori economici nei quali questo paese è competitivo e, perciò, sostenibile. Dall’altra, sta danneggiando il consumatore che ha scelto liberamente, tra tutti i prodotti che aveva a disposizione, di non consumare quelli di determinate imprese, vuoi per ragioni legate al prezzo, vuoi per la qualità o per qualsiasi altra ragione di origine etica, morale, ecc…
Inoltre, in un mercato davvero libero, il vero potere è nelle mani dei consumatori (cittadini), i quali, nell’atto di consumare, decidono quali aziende, prodotti e servizi debbano rimanere nel mercato, quali debbano migliorare oppure, nel caso opposto, quali debbano abbandonare tale mercato.
In un ambiente di libero mercato, quando lo Stato non concede monopoli, diritti speciali o qualunque altro tipo di privilegio, nessuna azienda, per quanto grande e potente sia, durerà molto tempo in quel mercato se non offre un bene o un servizio che soddisfi i gusti e i bisogni dei consumatori o dei cittadini.
E, di fatto, alle grandi aziende non interessa la libera concorrenza. Per loro risulta essere molto più proficuo organizzarsi in piccole lobby o gruppi di interesse per comprare i favori dei politici (politiche protezionistiche, sovvenzioni, esenzioni fiscali), creando, nei settori economici in cui operano, importanti barriere in entrata ed evitando così la possibile concorrenza di nuove aziende. Tutto ciò è più proficuo dell’investire continuamente grandi risorse in RSI, formazione del personale, ecc… È chiaro che un’economia di libero mercato di questo genere non esista attualmente, in quanto in tutte le economie capitaliste di “libero” mercato l’interevento dello Stato è forte.
La conclusione a cui giungono gli studiosi della teoria della scelta pubblica è che i fallimenti derivanti dall’intervento dello Stato in economia sono molto più gravi di quelli che potrebbero esistere nel settore privato (concorrenza imperfetta, esternalità, ecc…).
Segue…
Articolo scritto da:
Jorge Pérez Montes
Affiliato al Partido de la Libertad Individual
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