Del socialismo…
Il socialismo economico, come fu concepito da Marx, si basa su due pilastri fondamentali:
- La proprietà pubblica di mezzi di produzione, lavoro e capitale.
2. La creazione di un organo di pianificazione centrale (consiglio dei saggi) che stabilisce chi deve produrre, che cosa si deve produrre. quanto e quando produrre.
Critiche al socialismo, l’impossibilità teorica e pratica.
Come già argomentarono i teorici della scuola austriaca di economia negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, primi fra tutti Ludwig von Mises e Friedrich Hayek, e più recentemente Jesús Huerta de Soto e Hans-Hermann Hoppe, fra gli altri, il socialismo di tipo comunista non si può realizzare in termini tecnici; questi sono i motivi:
- Uno dei presupposti del socialismo è che tutta l’informazione disponibile possa essere gestita da un’autorità centrale (indipendentemente dal numero di gestori), ciò trascura il fatto che la società attuale si basa sull’utilizzo di conoscenze molto disperse, che superano di molto la capacità di qualsiasi mente individuale. Vale a dire che il volume aggregato dell’informazione è così immenso e mutevole che è tecnicamente impossibile pensare che un organo direttivo possa riuscire a conoscerlo o gestirlo in maniera centralizzata. A oggi non esiste nessuna persona, né macchina che sia in grado di raccogliere, immagazzinare, processare e gestire tutta l’informazione (gusti, bisogni, caratteristiche del mercato…), che oltre tutto è in costante cambiamento, al fine di organizzare e coordinare in maniera esatta il funzionamento della società.
- Il tipo di informazione necessaria per poter realizzare una produzione che sia d’accordo con i gusti e i bisogni dei cittadini è, in molti casi, soggettiva, è dispersa nella mente dei soggetti, è quindi tacita e non può essere espressa formalmente; ne sono un esempio le capacità, la creatività, il “know-how”, l’imprenditorialità, al cui interno spiccano la capacità di individuare i bisogni presenti e futuri dei cittadini o le situazioni di disequilibrio (quando una persona spreca una risorsa mentre un’altra, che ne avrebbe bisogno, non ce l’ha a disposizione), ecc…
Questo significa non solo che il volume dell’informazione è così immenso da impedire che un organo incaricato della pianificazione centrale possa dirigere tutta la società in maniera coordinata, ma addirittura, che in molti casi esso non potrà nemmeno raccogliere l’informazione necessaria per farlo, visto che le persone, anche se lo volessero, non sarebbero in grado di trasmettere i “bit” di informazione relativi alle attività appena menzionate. Non si può imparare a scuola come essere un bravo imprenditore o un bravo calciatore, si potrà migliorare o perfezionarsi, ma o si ha una determinata capacità per una specifica attività o non la si ha.
- Non si può trasmettere l’informazione che non è ancora stata creata. Per poter produrre la quantità di beni e servizi richiesti dalla società non è sufficiente avere a disposizione l’informazione relativa a com’erano le cose nel passato; abbiamo bisogno dell’informazione futura, in quanto la produzione non ha come obiettivo soddisfare i bisogni di ieri, bensì quelli di domani (i nostri gusti e bisogni cambiano continuamente). Visto che l’informazione futura è sempre incerta, in un’economia di libero mercato questo problema si risolve con il segnale che l’utile o la perdita danno all’imprenditore. Utilizzando le parole di Hayek “L’utile è il segnale che ci dice che cosa dobbiamo produrre per prestare servizio a persone che non conosciamo”. In un’economia socialista a pianificazione centrale non essendoci né utile, né perdita, non abbiamo a disposizione segnali che orientino la produzione in base ai bisogni dei cittadini.
- L’esercizio della coercizione sistematica da parte dello Stato impedisce al processo imprenditoriale di scoprire e creare l’informazione necessaria per coordinare la società. In tal senso si tratta di un paradosso: lo Stato, infatti, impedendo alle persone di agire liberamente, scambiandosi informazioni, comprando e vendendo, selezionando, non viene a contatto con quell’informazione che dovrebbe necessariamente ricevere dalle persone al fine di coordinare la società in maniera corretta.
- Per ultimo, eliminando la proprietà privta dei mezzi di produzione, eliminiamo anche l’incentivo che hanno i proprietari o i cittadini a generare ricchezza.
Per riassumere: il problema evidente è che in quanto organi di gestione, anche supponessimo di essere le persone più qualificate della nazione e agissimo con tutta la buona fede e la buona volontà possibili (e questo, forse, è solo una mera supposizione) non faremo praticamente mai la scelta giusta e non potremo coordinare la società dall’alto. In alcuni casi genereremo una carenza, in altri una sovrapproduzione, che porterebbe inesorabilemente a una povertà estrema, dato che le risorse sono limitate.
Non sorprende il fatto che, storicamente, il socialismo abbia ricevuto così tanto consenso popolare. Togliere i soldi ai ricchi per darli ai poveri, quando la stragrande maggioranza della popolazione è povera, è una politica che, per pura logica matematica, dovrebbe avere l’appoggio della maggioranza dei cittadini. Tuttavia, uno studio dettagliato della scienza economica, in particolare il contributo dei teorici della scuola austriaca di economia, ci può far notare che se ciò che vogliamo è lottare contro la povertà e creare un mondo più giusto, queste politiche interventiste, forse, non sono le più efficaci.
Bisogna tenere in considerazione che la ricchezza non è un gioco a somma zero, la ricchezza si può crare, ma anche distruggere.
Secondo me, la chiave per lottare contro la povertà non è distribuire la limitata ricchezza che esiste in un dato momento e luogo, bensì generare più ricchezza che, in un sistema capitalista di libero mercato, si distribuirà inevitabilmente (che lo vogliano o meno i ricchi) tra tutta la popoazione, in maniera ineguale, questo sì… Ma che alternativa abbiamo? Se togliamo i pesci a quelli che ne hanno di più e li obblighiamo a darli a quelli che non ne hanno, risolveremo il problema (in maniera ingiusta per gli uni e giusta per gli altri, e anche qui non ci sarebbe accordo) ma, in ogni caso, solo temporaneamente perché chi sa pescare non tornerá a crare un’eccedenza, inoltre non avremo nemmeno insegnato a pescare a quelli che non lo sapevano fare.
Del liberalismo…
Il liberalismo si basa sulla difesa delle iniziative individuali, in quanto la libertà della persona è il valore supreno e implica il rispetto scrupoloso della libertà altrui. L’idea proposta è di limitare l’intervento dello Stato tanto nella vita economica, quanto in quella sociale e culturale.
La proprietà privata è l’ambito principale in cui si esercita la libertà. La proprietà non è da intendersi solamente come l’insieme dei beni materiali e il capitale, bensì anche come il proprio corpo e la propria vita, le conoscenze acquisite, le idee e la creatività personali, il tempo che si ha a disposizione e le opzioni tra le quali si può scegliere liberamente.
Critiche
Visto che comprendo che nelle società democratiche attuali la paura delle libertà in ambito sociale e culturale (tralasciando qualche isolato caso di fanatismo religioso) sia stata sconfitta – libertà quali il potere di scegliere liberamente chi amare, uomo o donna che sia, le nostre convinzioni, il desiderio di vivere o morire ecc, ecc… mi concentrerò sulle critiche che il ramo economico del liberalismo riceve.
In primo luogo bisogna chiarire che la posizione contraria al liberalismo non è solamente il socialismo (economia a pianificazione centrale), bensì qualunque tipo di interventismo imposto in maniera coattiva, a danno della libertà degli esseri umani.
In secondo luogo bisogna chiarire che qui non si tratta di persone buone o cattive, vale a dire, non sostengo che i miei (i liberali) siano i buoni, mentre gli altri (gli interventisti) siano i cattivi; ritengo, infatti che tutti agiamo in buona fede, guidati dalle migliori intenzioni, cercando la miglior soluzione possibile per tutt i cittadini nel loro complesso. Quel che succede in economia è però che, come nelle altre scienze, non contano le buone o le cattive intenzioni, contano i risultati. Quindi, quello che bisogna spiegare, utilizzando i mezzi che abbiamo a nostra disposizione – vale a dire la logica e il ragionamento, e lasciando la fede ad altre necessitá – è quale sistema (quale mezzo) serva di più, in termini di utilità ed efficienza, ai nostri propositi (fini).
Bisogna anche capire che ci sono tanti fini quanti gli esseri umani, ma anche che condividiamo il desiderio di avanzamento e progresso della civiltà per i quali sono necessari lo sviluppo e l’aumento della conoscenza e la coscienza, il cui alleato migliore è la libertà.
Chiariti questi aspetti passo ad occuparmi delle critiche che il liberalismo in ambito economico riceve. Gli interventisti difendono e giustificano l’intervento dello Stato per correggere quelli che vengono definiti “fallimenti del mercato”. Sostengono che tali fallimenti si produrrebbero perché gli indivitui seguono fini egoistici che devono essere contrastati con l’intervento di un ente solidale che segua invece il bene comune. Ma, è davvero così? È un male che noi in quanto individui seguiamo in nostro interesse?
Consideriamo un aspetto per volta… Che cosa spinge le persone ad agire?
Secondo Mises gli individui agiscono (intraprendono l’azione umana) per mettere fine a un proprio malessere, che può essere un bisogno fisiologico, un bisogno di sicurezza, di autorealizzazione (anche quello di aiutare un’altra persona), ecc… In fondo è un motivo egoistico quello che, nel tentativo di mettere fine al nostro malessere, ci porta ad agire. Dopo aver messo fine al nostro malessere arriva una fasi di benessere, e l’azione non ricomincia se non al presentarsi di un altro malessere.
Questo è un processo continuo e illimitato nel tempo, fino a che non si arriva alla morte, unico momento nel quale l’essere umano si libera completamente del peso dei bisogni. Il problema è che tanto l’egoismo, quanto l’invidia, sono sentimenti che appartengono all’essere umano che sono stati e continuano ad essere maltrattati e demonizati da molte persone; questo fa sì che per noi sia molto difficile imparare a gestirli e controllarli come vorremmo.
I sentimenti non sono né buoni, né cattivi di per sé, ciò che è buono o cattivo dipende dal controllo che possiamo esercitare sui sentimenti, non viceversa. Dopo tutto controllare i nostri impulsi e sentimenti è ciò che ci differenzia dal resto degli animali.
È per questo che ritengo non possa ritenersi cattivo il fatto di avere come fine quello di perseguire il nostro interesse, sempre e quando ciò non comporti un danno per altre persone. Come si suol dire, la libertà di uno finisce dove inizia quella di un altro, ed è proprio questa “complessa” delimitazione il nocciolo della questione.
Come disse Adam Smith con la sua idea di “mano invisibile”, in un sistema capitalista di libero mercato: “… l’agente economico pensa solamente al suo guadagno, ma in questo, come in molti altri casi, una mano invisibile lo porta a promuovere un fine che non riestrava nelle sue intenzioni”… “per la società non rappresenta un male il fatto che tale fine non entrasse a far parte dei suoi propositi, in quanto, seguendo il proprio interesse, promuove quello della società in maniera più efficace di come lo avrebbe fatto se il proposito fosse rientrato nei suo disegno iniziale”.
In effetti, in un mercato libero chi segue il proprio lucro* (comportamento egoista) è obbligato a seguire gli interessi del consumatore (fine solidale) creando, inventando, investendo, accordandosi e producendo. Dovrà mettere a disposizione del consumatore i suoi prodotti o servizi (vendendoli) in quanto, se questa persona decidesse, al contrario, di essere l’unico beneficiario di un determinato bene, non otterrebbe più beneficio al di là di quello derivante dall’uso esclusivo di tale bene.
Se Steve Jobs avesse deciso di essere l’unico ad usare l’”Iphone”, solamente lui avrebbe beneficiato di questo avanzamento tecnologico, ma, uno, il prezzo di un unico Iphone sarebbe staato decisamente proibitivo (persino per Steve Jobs) e, due, lui non avrebbe accumulato così tanta ricchezza. È in questo strano processo che Adam Smith vedeva l’intervento di una specie di mano invisibile (con riferimento a Dio), in quanto il libero mercato sarebbe quello che Dio aveva creato per trasformare cause egoistiche in cause solidali.
[*Da intendersi nel campo della legalità, tralasciando da questa analisi tutti coloro che perseguono i proprio lucro seguendo metodi di estorsione, intimidazione, furto o violenza.]
Altra critica abituale è il riferimento alle enormi differenze di reddito tra le persone che abbracciano un’economia capitalista di libero mercato.
Tralasciando il fatto che queste siano differenze enormi, non capisco come questo possa definirsi giusto o inguisto. Mi spiego meglio:
Il fatto che esistano differenze in ogni ambito della vita, tra piante, animali, esseri umani (razze, culture, religioni, redditi…) non significa che dobbiamo eliminarle per il mero fatto di essere diversi. La storia ci dimostra che molte persone hanno cercato di eliminare queste differenze ricorrendo alla forza, autoproclamandosi detentori della volontà universale, bramosi di far giustizia, ma quello che hanno ottenuto è stato esattamente il contrario: grandi ingiustizie con conseguenze terribili per l’umanità.
Capisco che quelli che criticano le differenze di reddito o di patrimonio lo fanno perché ci sono persone che, a oggi, vivono in condizioni inumane e non hanno di che mangiare, e capisco anche che se nessuno vivesse in tali condizioni non avrebbero ragione di criticare la differenza di reddito o di patrimonio. Vale a dire che non criticherebbero il fatto che, per esempio, una persona viva in un appartamento di 80 metri quadrati, mentre un’altra in una casa di 3000, che una guidi una Seat, mentre un’altra una Ferrari, che una non possa che mangiare cibo casalingo mentre l’altra possa concedersi tutti i giorni tempura di salicornia allo zafferano con emulsione di ostriche e sale dell’Himalaya, ecc…
Perché, in tal caso, si potrebbe dire con sicurezza assoluta a quelli che la pensano così che queste “inguistizie sociali” non possono essere risolte. Non esiste mente umana in grado di ideare un sistema nel quale sia possibile soddisfare tutti i bisogni (illimitati) di tutti gli esseri umani senza disporre di risorse illimitate e senza che vi sia il bisogno di lavorare per farlo.
Credo di poter tranquillizzare gli altri e dir loro che credo ci sia speranza, che la povertà (termine soggettivo) e la fame, nonostante il fatto che disponiamo di risorse limitate, possano essere sconfitte in quanto i bisogni primari non sono illimitati.
Nononstante il fatto che non sia perfetto, e tutto ciò che non lo è può essere migliorato, il sistema che, nel corso della storia, è risultato utile a tal proposito è il capitalismo di libero mercato, senza barriere, o almeno senza barriere eccessive, al libero scambio. Mai prima d’ora, nel corso della storia, siamo stati così numerosi. Mai prima d’ora abbiamo dovuto provvedere a sfamare così tante bocche, e per così tanto tempo. Mai prima d’ora abbiamo ottenuto così tanto beneficio dalle così scarse risorse del pianeta. Mai prima d’ora abbiamo ampliato ed applicato la conoscenza (scienza, cultura e tecnologia) in maniera così rapida ed efficace.
Prima dell’avvento del capitalismo tutti i paesi erano estremamente poveri e solo alcuni, i più privilegiati (aristocrazia, clero e alta borghesia), vivevano nell’agiatezza. Oggi le classi medie e alte raggiungono tassi altissimi (solamente in paesi capitalisti con un alto livello di libero mercato). Questo non è successo in NESSUNO degli esperimenti comunisti del secolo passato (URSS, Cina, Cuba, Vietnam, Corea del Nord, Polonia, Ceccoslovacchia, Ungheria, Repubblica democratica tedesca, ecc…). Credo che, anche fosse solamente per questi fatti, il capitalismo di libero mercato meriti di essere preso in considerazione. Quanti sosterrebbero oggi il capitalismo se avesse avuto lo stesso retaggio del comunismo?
Se gli stipendi e i salari delle persone che si trovano all’interno della stessa economia non sono uguali è perché non sono uguali nemmeno i guisti, i bisogni, le conoscenze, le capacità delle persone. Non credo si tratti di giustizia o inguistizia. È forse ingiusto che Leonardo Da Vinci o Dalì siano stati troppo abili con il pennello rispetto a migliaia di altri pittori che non hanno ottenuto lo stesso riscontro? Ed è forse inguisto che noi, comuni mortali, siamo disposti a pagare di più per avere o godere delle loro opere?
In una società di libero mercato non credo che possa considerarsi ingiusto il fatto che una persona guadagni molto rispetto ad un’altra, che invece guadagna poco. Ovviamente, sempre e quando entrambe abbiano rispettato le leggi democraticamemnte scelte. Leggi che dovrebbero essere astratte, dal contenuto generale, e che dovrebbero essere applicate a tutti nella stessa maniera. È ovvio che se, al contrario, la legge favorisce o danneggia alcuni rispetto ad altri, la questione cambia.
Il fatto che, per esempio, a molti dei cittadini di oggi piaccia il calcio, e che essi siano disposti a sacrificare una parte considerevole del loro tempo per godere di alcune ore da spettatori di una partita – con lo sforzo che ciò comporta – non credo che possa essere considerato ingiusto per le persone che non condividono la stessa passione. È il fatto che piace molto, e a molti, ciò che fa sì che un bravo calciatore ottenga un’elevatissima contropartita economia per i servizi che presta, essendo la sua produttività molto elevata.
Al contrario, credo possa considerarsi ingiusto il fatto che una persona, o gruppo di persone, pretenda di imporre i propri desideri sugli altri, e ne ostacoli quindi la libera scelta, sovvenzionando, per esempio, il teatro o i musei, regalandone gli ingressi e imponendo un’importante tassa sulle entrate del calcio. E non credo basti addurre la scusa che il fine che si sta perseguendo è particolarmente nobile, che facendo così vogliamo solamente coltivare le masse e liberarle dal cosiddetto “oppio del popolo”. Se la gente decide liberamente, qualunque siano le motivazioni che la spingono a farlo, di continuare a essere incolta e ignorante abbiamo noi “illuminati” il diritto di privarla della sua libertà? Che certezza abbiamo di non essere NOI gli ignoranti?
Celebre è la frase dell’economista Pedro Schwartz sulle differenze economiche: “Non mi interessa la disuguaglianza, perché non sono invidioso. Mi interessa la povertà”.
Detto ciò è certo che a livello politico ed economico possiamo, ricorrendo alla forza coattiva, limitare o redistribuire i guadagni e le ricchezze degli individui di una società. Possiamo anche stabilire prezzi massimi (per esempio per quelli che consideriamo essere beni di base), o prezzi minimi (per esempio per i salari), diversi da quelli che si fisserebbero in un libero mercato, ma sarà compito degli economiasti mettere in guardia i politici e i cittadini sulle conseguenze di tali azioni.
- Stabilire prezzi massimi.
Se, per determinati prodotti, fissiamo dei prezzi massimi al di sotto di quelli che si stabilirebbero in un mercato libero perché, per esempio, riteniamo che il pane sia un prodotto di base che dovrebbe costare meno, si viene immediatamente a creare carenza di quel bene, da un lato a causa della domanda – che sale in conseguenza del nuovo prezzo del pane artificialmente ridotto – e, dall’altro, a causa dell’offerta – in quanto molti imprenditori abbandonano questo settore economico controllato per altri settori nei quali possono ottenere guadagni maggiori. Infine, se l’obiettivo era che tutta la popolazione potesse soddisfare i propri bisogni legati all’acquisto di pane a un prezzo che abbiamo ritenuto essere “giusto” o ragionevole, quello che otteniamo come conseguenza è esattamente il contrario.
Per la maggior parte della popolazione quel bene è più scarso e inizia, inoltre, a svilupparsi un mercato nero in cui i prezzi sono più elevati di quelli precedenti l’intervento; l’imprenditore, infatti, al costo di produzione somma quello del rischio che corre in quanto potrebbe essere scoperto a violare la legge. In questa nuova situazione la maggioranza della popolazione non potrà disporre di tale bene (tessere di razionamento, lunghe code…) e le classi più elevate saranno a mala pena colpite, visto che potranno pagare un prezzo più alto nel mecato nero. Ed è una certezza che nel mercato nero si inseguono i venditori e mai, o quasi mai, gli acquirenti. Lascio all’immaginazione dei lettori gli esempi.
- Stabilire prezzi minimi.
Se stabiliamo dei prezzi minimi al di sotto di quelli di mercato, si viene a produrre l’effetto contrario: un’eccedenza di beni che non trovano acquirenti, visto che questi ultimi non sono disposti a comprare la stessa quantità del bene ad un prezzo artificialmente elevato. Un esempio calzante di questo fenomeno lo vediamo normalmente nel mercato del lavoro, controllato attraverso la celebre e popolare politica del salario minimo. Più alto questo salario minino è rispetto al valore che si sarebbe liberamente stabilito nel mercato libero, più disoccupazione creeremo. E visto che questa realtà è un problema per molti (me comprenso, da alcuni anni a questa parte) cercherò di spiegarla più chiaramente.
Purtroppo è abbastanza comune che la maggioranza dei cittadini critichi gli economisti che analizzano il mercato del lavoro come se si trattasse di qualunque altro mercato e li etichetti come frivoli, crudeli o addirittura perversi.
– Come si permettono di trattarci come se fossimo merce?
– Stiamo parlando di vite umane, dei nostri sforzi e del nostro sudore. Dei nostri diritti in quanto esseri umani.
Tuttavia, tali critiche sono tanto assurde quanto lo sarebbe criticare un fisico che ci informa che, ai fini della scienza fisica, è indifferente buttare giù da un burrone di cinquecento metri un’automobile o un neonato di tre mesi, in quanto la conseguenza sarà la stessa. La forza di gravità colpisce entrambi i corpi fisici nella stessa maniera, così, passati x secondi in un caso, e y secondi nell’altro, né l’uno, né l’altro esisteranno più.
Gli economisti, come i fisici, ci avvertono solamente di quali sono le conseguenze di determinate azioni, in un caso, nel campo dell’economia, nell’altro, in quello della fisica; lo fanno indipendentemente dal loro metodo di studio: aprioristico deduttivo, nel primo caso, scientifico sperimentale, nel secondo.
In un’economia di libero mercato gli stipendi e i salari non hanno a che vedere, né con l’avarizia o la generosità degli imprenditori, né con le leggi che stabiliamo. In Spagna, per esempio, si potrebbe stabilire un salario minimo interprofessinale di 3000€ al mese, ma questo presupporrebbe che alcuni, pochi, guadagnerebbero di più (quelli che potrebbero farlo data la loro produttività) a scapito di altri, molti (le classi più basse) che non troverebbero affatto lavoro. Questo si deve al fatto che gli imprenditori non possono pagare il lavoratore più di quanto questo apporti al processo produttivo, perché se lo facessero in maniera generalizzata e duratura nel tempo, registrerebbero delle perdite e si vedrebbero obbligati a chiudere l’azienda.
Il motivo per il quale un lavoratore svedese con lo stesso lavoro di uno spagnolo guadagna di più di quest’ultimo è dovuto ai diversi tassi di capitalizzazione delle due economie, vale a dire, l’accumulazione di capitale pro capite (fisico e umano) di tali economie. A tassi di capitalizzazione più alti corrisponde una produttività maggiore e, di conseguenza, salari più alti.
È evidente, per esempio, che se il capitale raddoppia e la popolazione attiva rimane invariata, la produttività aumenterà e di conseguenza aumenteranno i salari. Al contrario, se è la popolazione attiva a raddoppiare, mentre il capitale rimane invariato, i salari si abbasseranno irrimediabilmente.
Un aumento nella produttività non solo fa sì che i salari aumentino, ma anche che si riduca il costo marginale della produzione e che aumentino, in generale, la quantità e la qualità dei beni e dei servizi che arrivano sul mercato. Come sosteneva Mises: “Gli utili guadagnati, accumulati e reinvestiti in macchinari rappresentano un doppio beneficio per l’uomo comune: da una parte ne beneficia la sua capacità in quanto lavoratore stipendiato, aumenta, infatti, la produttività marginale del lavoro e, quindi, i salari reali di tutti quelli che vogliono lavorare. Dall’altra, ottiene un beneficio in quanto consumatore: quando i beni prodotti con il capitale aggiuntivo arrivano, infatti, sul mercato e diventano dispobili al più basso prezzo possibile.”
In una società la presenza di qualcuno che intraprenda un progetto di investimento (di tempo e/o di denaro), assumendosi determinati rischi e cercando di migliorare, ampliare o innovare, è tanto necessaria quanto quella di qualcuno che sia disposto lavorare per conto d’altri. Ciascun imprenditore potrebbe essere un dipendente, e ciascun dipendente potrebbe essere un imprenditore. In questo caso non si tratta di essere capaci o non capaci, nemmeno di essere furbi o stupidi. Si tratta di persone più avverse al rischio (i lavoratori dipendenti) che preferiscono assicurarsi un guadagno in cambio di uno sforzo – sebbene sappiano che il guadagno sarà minore di quello che otterrebbero se lavorassero per conto proprio – e altre che si dimostrano più propense ad assumersi determinati rischi, credendo di poter ottenere in futuro guadagni maggiori.
Si potrebbero criticare gli imprenditori che vogliono disporre del fattore lavoro o del capitale al più basso costo possibile, ma in questo caso bisognerebbe criticare anche il consumatore perché cerca di comprare i prodotti e i servizi di una determinata quantità al più basso costo possibile.
Di recente si è formato un gruppo significativo di consumatori che appoggia il cosiddetto “commercio giusto”, che, in breve, presuppone che il consumatore paghi, per uno stesso bene, un prezzo superiore a patto che si rispettino alcune condizioni (“giusti” salari, condizioni di lavoro e salari adeguati ai produttori, uguaglianza tra uomo e donna…). A seguito della nascita di questa nuova domanda si sono costituite molte aziende con il fine di soddisfarla. Vuoi per la sua stessa definizione (Che cosa è giusto, e chi lo stabilisce?), vuoi per il fatto che sia difficilmente controllabile, non credo che questo tipo di attività sia il più efficiente, tuttavia in questa ottica liberale, tutto ciò che presuppone il libero scambio tra le parti è ben accetto.
- Limitare o redistribuire i profitti.
Se mettiamo un limite alla possibilità che ha un artista o un genio di continuare ad arricchirsi con le proprie creazioni sostenendo, per esempio, che dato il suo successo ha accumulato troppa fortuna, e che se desidera continuare a fare il suo lavoro non potrà ottenere alcuna controprestazione economia, è chiaro che stiamo limitanto le sue entrate e, di conseguenza, nel breve termine stiamo riducendo le differenze tra le entrate della popolazione. Allo stesso tempo però staremo anche privando il resto dei cittadini di nuovi contributi, siano essi idee, opere, beni o servizi; nel medio/lungo termine staremo quindi “impoverendo” il resto della popolazione. Tale impoverimento non sarà solamente economico, potrà infatti trattarsi di un impoverimento culturale, sociale, scientifico, ecc…
Si arriverebbe quindi al paradosso secondo cui l’artista o il genio di maggior successo (vale a dire quello che offre ciò che la maggioranza della popolazione ritiene essere buono) risulterebbe danneggiato dalla nostra politica di limitazione delle entrate, al contrario di quello la cui arte non ha trovato seguito, o che ha trovato un seguito più ridotto.
Succede lo stesso quando imponiamo dei limiti alle entrate degli imprenditori. Se si considera l’ambito della legalità, la capacità di generare ricchezza richiede enormi e specifiche capacità. In questa considerazione, infatti, tralasciamo ladri, truffatori e corrotti, siano essi imprenditori, politici o lavoratori del settore privato, o dipendenti pubblici, i quali presi dall’invidia o vittime della frustrazione incontrollata per non aver saputo o potuto fare fortuna in maniera legale, cercano di raggiungere i propri scopi ricorrendo a qualunque tipo di espediente.
Così com’è strutturata la società democratica di oggi, una società nella quale le tasse sono elevate, è in alto che la corruzione fa i danni maggiori, nello specifico all’interno delle grandi aziende e della pubblica amministrazione gestita dai diversi partiti politici che detengono il potere.
Da ultimo analizzeremo ciò che succederebbe se, mediante l’imposizione di tasse, redistribuissimo forzatamente i profitti di determinati cittadini.
Se la redistribuzione fosse volontaria non ci dovrebbero essere conseguenze negative oltre a quelle del costo di opportunità; vale a dire: se un ricco imprenditore decidesse di donare la metà della sua fortuna a un paesino del Congo affinché costruisca scuole, ospedali, fabbriche o intraprenda attività che generino entrate per il suo futuro sostentamento, ciò avrà un effetto positivo sia per quel paesino, sia per il ricco imprenditore, il quale sarà felice di aver aiutato volontariamente. Il costo di opportunità è rappresentato da tutto ciò che l’imprenditore avrebbe potuto fare con metà della sua fortuna e che non ha fatto, per esempio aiutare un altro paesino del Mozambico o aiutare altri imprenditori in progetti imprenditoriali.
Diverso è se la redistribuzione viene imposta. In questo caso sì che ci sono ripercussioni negative, in quanto non si tratta di un atto volontario per nessuna delle parti e, di conseguenza, ritengo che questo sistema non potrà MAI considerarsi giusto. Non c’è dubbio sul fatto che lo Stato offra una serie di servizi in cambio delle tasse che paghiamo, ma noi non le scegliamo liberamente. È un po’ come se un supermercato stabilisse per conto nostro un paniere di beni e, per legge, fissasse il prezzo che saremmo disposti a pagare per il lotto intero.
Le tasse implicano l’esistenza di un’imposizione, tuttavia il danno sarà minore quanto più neutro esso sia, e quanto più “volontaria” appaia tale imposizione. Ciò significa che il contribuente deve avere la sensazione che l’imposizione delle tasse non sia un atto completamente volontario, ma che sia, tuttavia, molto positivo. Questa è la sensazione che non devono avere solo in pochi, ma che la maggioranza dei contribuenti deve avere; tanto più forte questa sensazione sarà, tanto più limitato sarà il danno che la tassa arrecherà. Sembrerebbe ovvio che, affinché questo si verifichi, la tassa dovrebbe sempre tradursi in un beneficio per la società, e sta proprio qui il problema: non tutte le persone, infatti, condividono gli stessi obiettivi e, soprattutto, nessuno assegna loro la stessa priorità.
L’imposizione, nella pratica, genera un’infinità di ingiustizie, distorce il mercato e l’assegnazione di risorse, oltre al fatto che non riduce le disuguaglianze. Anzi, tende ad accentuarle; le persone e le aziende che hanno a disposizione risorse maggiori, infatti, riusciranno sempre a evadere le tasse, visto che sono le classi medie quelle su cui grava maggiormente la tassazione.
Anche nel caso della ridistribuzione dei redditi si produrrebbe un paradosso, vale a dire, con il pretesto di fare giustizia, danneggeremmo l’artista, il genio, l’imprenditore o il lavoratore che apporta alla società un valore aggiunto più alto di quello di altri. In poche parole “premieremmo” chi vende molti dischi, il genio la cui invenzione ha permesso alla società di avanzare, l’imprenditore che crea più posti di lavoro e il lavoratore più efficiente e produttivo aumentando considerevolmente le loro tasse.
Al contrario, “puniremmo” il cantante che vende dischi solo ad amici e parenti, il genio che ha inventato le mutande con la cerniera, l’imprenditore che si adagia sugli allori e il lavoratore che qualunque imprenditore vorrebbe per la sua competenza pagandoli con parte dei profitti altrui.
Riassumendo: l’economia di un paese, nella quale interagiscono quotidianamente milioni di persone, comprando, vendendo, lavorando, producendo, è sicuramente un sistema altamente complesso che non credo si possa arrivare a gestire dall’alto. Per i governanti sarà praticamente impossibile poter prevedere anticipatamente tutte ed ognuna delle conseguenze dei loro interventi. Si verifica qualcosa di simile a ciò che si identifica come l’”effetto farfalla”: la minima variazione delle condizioni iniziali o delle “regole del gioco” può far sì che il sistema evolva in maniera opposta a quanto si desiderava.
Vorrei terminare sottolineando che ritengo che LA LIBERTÀ SIA IL VALORE SUPREMO DELL’ESSERE UMANO, la coscienza l’alleato migliore e la paura il più grande avversario. Tuttavia, anche considerando la libertà il valore supremo, ritengo che nessuno dovrebbe utilizzare la violenza per cercare di imporla, visto che, la libertà, come la vita, arriverà quando si verificheranno le condizioni necessarie.
La libertà offre agli esseri umani un’infinità di diritti, ma altrettante responsabilità, e se esigiamo la libertà dobbiamo agire responsabilmente. Non è forse questo quello che chiediamo ai nostri figli quando reclamano più libertà?
Due esempi di tale responsabilità sono il rispetto dell’ambiente e quello delle nostre finanze. Il primo perché dopo di noi verranno altri che dovrebbero avere il nostro stesso diritto a godere del pianeta, il secondo perché non possiamo chiedere allo Stato indipendenza economica assoluta e, se ci capitasse di andare in bancarotta, rivolgerci a lui per un aiuto. Questo privilegio è prerogativa solamente delle vecchie e care banche, ma questa è già un’altra storia…
Articolo scritto da:
Jorge Pérez Montes
Affiliato al Partido de la Libertad Individual
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